Gabriele Lavia al teatro Quirino: Il berretto a sonagli, di Luigi Pirandello.

Correvano gli anni 80 quando, invece di andare ai concerti dei Duran Duran, mettevo da parte i soldi delle paghette settimanali per andare a teatro. Prenotavo posti bellissimi, in prima o seconda fila, sotto al palcoscenico, per non perdermi una battuta né uno sguardo degli attori. Vidi di tutto, anche i cosiddetti 'mostri sacri': Vittorio Gassmann nell'Otello di Shakespeare, che ogni sera scambiava con Giulio Brogi i ruoli di Otello e Jago, come nella tradizione, e io capitai quando Gassmann faceva Otello: maestoso, truccato di nero, quando entrò in scena ci fu un applauso subito, prima che parlasse, come a sottolineare immediatamente il gigante che era.
Vidi Carmelo Bene, in una rivisitazione tutta sua - surreale ma non per questo meno inquietante- di Macbeth: carismatico, voce profonda e sublime. Glauco Mauri in Edipo re, Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, coppia in scena e nella vita, in Candida di George Bernard Shaw.
Ma di questi attori conoscevo già la fama, in qualche modo l'aura leggendaria, che li circondava. E la rivelazione per la me quindicenne di allora fu invece Gabriele Lavia. 
Lo avevo visto in televisione, giovanissimo, in una replica del Pellicano di Strindberg, ma la vera e propria folgorazione ebbe inizio con il monologo Il sogno di un uomo ridicolo, di Dostoevskij, al Piccolo Eliseo: delirante, tragico e indimenticabile, la sagoma sottile trasfigurata sul palcoscenico da parole che trafiggevano come spade.
E a seguire, l'esempio più paradigmatico: I masnadieri di Friedrich Schiller, in cui Lavia interpretava Franz von Moor, il sordido, malfermo fratello 'cattivo' mentre il bello e buono Karl era impersonato da Umberto Orsini. Una messinscena tenebrosa e rocambolesca, con una grande scala appoggiata ad una quinta, musiche drammatiche di Giorgio Carnini, atmosfera e tensione al cardiopalma per tutto il tempo. Era un periodo di innamoramenti e fascinazioni, a tal punto che fino all'età di 17 anni fui fermamente convinta del fatto che dopo il liceo mi sarei iscritta all'Accademia d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico".
Giovedì scorso sono tornata al teatro Quirino, per rivedere Gabriele Lavia nel Berretto a sonagli di Pirandello. Ero già stata a vari spettacoli, di altre compagnie,  dopo il lockdown, trovando un pubblico spesso distratto, passivo, le voci degli attori poco risonanti nella sala, sebbene microfonate.
Ma in questo caso fin dall'inizio è stato tutto diverso: due ore e dieci, in cui il pubblico ha assistito in un silenzio totale, nel teatro pieno,  ad una rappresentazione solida, ironica, drammatica, in cui riconosci la cifra del vero Pirandello. Gabriele Lavia è stato indimenticabile nei panni dell'umile Ciampa,  in una dizione siciliana, recitando in equilibrio sul crinale oscillante della maschera tragica e comica, occhieggiando a volte al grandissimo Eduardo De Filippo, eppure completamente originale. 
Alla fine, il pubblico non è stato certo avaro di applausi, richiami e standing ovation: un'emozione straordinaria e condivisa, nella sala gremita, a rivivere ancora una volta l'ineffabile magia del teatro e di un artista immenso. 



Commenti

  1. Grazie. Fai tornare la voglia di teatro anche a chi non ci va da un pezzo.

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