La poesia che si fa anima: Francesco Di Benedetto, Per non dimenticarmi, Manni editore, Collana Occasioni, 2018.

Quale spazio c'è, nel mondo di oggi, per il poeta? Quali distanze possono essere annullate, abbattute, dissolte, dalla poesia? Nella nostra società 'liquida', in cui prevale ciò che è veloce, in cui le immagini delle pubblicità si susseguono come visioni oniriche, sovrastate da suoni voci e parole, qual è il luogo della parola poetica, la sede eletta?

Ho letto le raccolte di questo poeta romano, Francesco Di Benedetto. Ho letto i suoi versi scabri, scavati nella roccia, coraggiosi e diretti, destrutturati. Le sue immagini mi fluttuano nella mente. Sulla mia scrivania c'è una raccolta del 2018, dal titolo Per non dimenticarmi. Ho segnato a matita i fili che si dipanano nel suo narrare. Rileggo la sua dichiarazione di intenti, una sorta di manifesto poetico: 

La mia letteratura si è costruita con il cinema e con le immagini. (...) Le immagini vi entrano con il simbolo del cinema, che era il simbolo della mia vita. Le pagine sono la materia che scorre fino alla mia destinazione. La parola è un'epifania che si scioglie con la morte di mio padre. Racconta una trasformazione di uno sguardo e della sua persona.

Se anche non sapessimo che Francesco è un appassionato estimatore di cinema (ha studiato al DAMS), lo capiremmo ugualmente dal taglio scenografico della sua prospettiva visiva. Il suo mondo interiore è immagine, serie di immagini che fluiscono e vengono fermate, dipinte, elette, nella poesia. Francesco conduce il lettore nel Maelstroem delle sue paure, dei ricordi, pur dolorosi, che salvano. Tuttavia non sono immagini irrelate, bensì collegate da tracce, fili luminosi che riportano a galla ciò che sopravvive dopo le grandi emozioni, dopo il trauma, dopo l'estremo:

Come il segnale viatico affidato al gatto, muto testimone di passato e vita:

L'amica gatta/che riporta luce/e acqua/al rustico dei tuoi ricordi/prestandoci la via./ Così, dove passi,/lasci tracce discrete/ e silenziose,/ che ci aprono/ ai segreti, fraterni/della nostra bellezza.

In tutta la raccolta versi brevi, lucidi come lama, la stessa con cui il poeta disseziona la sua memoria e non ha timore né pudore di mostrarsi a noi, di raccontarci i suoi nodi più segreti, che tramite la cifra poetica si trasformano da ossessioni ad ancore di salvezza, come in Forte dei Marmi:

Al pontile del Forte/ci salutavamo/ rincorrendoci e fantasticando,/ fra le panchine protette/ dai flutti/ poco più a fondo, di noi./ Al pontile del Forte/torneremo nei giorni/ a passare,/ rivedendo, ripetute/ volte,/ sgretolarsi/ la pienezza di un mondo. 

La metafora dell'acqua ricorre, appunto, a ricollegare ciò che si è vissuto, pur sembrando un paradosso che qualcosa di liquido e sfuggente possa farsi sostanza che lega e sostiene; i flutti non a caso proteggono, gli specchi d'acqua ci rimandano un'immagine, e tutto l'assunto poetico è una precisa volontà di ricostruire: trovare un senso prima dello 'sgretolamento', anzi in un mondo già decostruito, come appunto la struttura dei versi, graficamente contratti rispetto allo spettro di scrittura della pagina bianca. 

Guarda il tuo/presente,/immagina il futuro/che percorrerai/lontano/da questi moli./non rinnegarti. (...)Imparerai a riconoscerti/naturalmente/ nelle tue rare/virtù/operose.

Paura e smarrimento, dolore e ricordo vengono recuperati e trasformati nell'apprendistato della poesia, come anche la poetica degli oggetti, che riflettono noi stessi e la nostra visione soggettiva:

Lo specchio sa/delle mie nostalgie/tristi./ Occhio/ angolare/ feriva/ al baluginare/delle vite/ e dei volti degli altri,/sull'oblò della mia nave/senza timone.

Ecco dunque lo spazio del poeta, il suo ruolo imprescindibile e antico, ma tanto più importante ed elettivo quanto più la società nostra ci sfugge, quanto più il nostro quotidiano si affolla di immagini che rimandano ad un passato non risolto o comunque in sospeso con noi: dare parola e corpo di immagine ai nostri fantasmi interiori o alle immagini belle, quelle a cui Faust diceva "Fermati!", tracciare un filo di Arianna fatto di epifanie dolci o tremende (come l'Angelo tremendo di Rilke), l'anello che non tiene, la poesia che si fa anima e ci restituisce significato ogni giorno.

Commenti

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  3. Ciao Debora,
    mi sarebbe piaciuto rispondere al tuo articolo con due parole sul film L'attimo fuggente perché tu ami questo film (l'ho letto) e perché mi sembrava la risposta adeguata
    Penso però che potrei utilizzare quelle parole per la mia composizione in fieri che mi sta impegnando.
    Del tuo articolo mi hanno colpito soprattutto le parole "dopo l'estremo".
    Ti auguro le tue domande sulla scuola che sono ricche di luce ma anche di lutti che toccano il tuo ambiente di passione.
    Francesco Di Benedetto

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  4. Penso che "L'attimo fuggente" mi abbia fatto male nel segreto della mia formazione classica ma appartiene al segreto della mia formazione trasversale.
    C'è un suicidio.
    Penso che è stato l'esordio maturo del cinema nella mia vita anche se ho visto il film a soli dieci anni nella poltrona di casa accanto a mio padre.
    Non ci capivo niente, c'è anche il suicidio.
    Il professore interpretato da Robin Williams è colpevole e sono tutti i personaggi colpevoli salvo i ragazzi, che comprendono il ragazzo che si ammazza.
    Tutti i personaggi sono colpevoli in forme orripilanti (soprattutto il prof. di poesia) mentre ai ragazzi è dato crescere nel trauma perché la crescita è un trauma e chi non ci riesce si ammazza.
    La scena più bella del film è alla fine perché i ragazzi si alzano e scalano i banchi di classe con tutte le ferite del mondo che sono diventate, anche, le loro.
    Lo fanno per loro stessi.
    Lo fanno per sé stessi.
    Lì il professore di poesia che ha fallito come questo mondo si sorprende perché la poesia ha invaso l'aula.
    Francesco Di Benedetto

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